«DIECI DOMANDE A...», UNA NUOVA RUBRICA PER IL NOSTRO SITO: A TU PER TU CON STEFANO LOVERRO

Con il pezzo di oggi teniamo a battesimo una nuova rubrica del nostro sito: abbiamo deciso di intitolarla «Dieci domande a…», prendendo spunto dall’idea di dedicare volta per volta un’intervista di dieci domande ad uno dei protagonisti della grande famiglia del Monselice Calcio.
Per l’articolo d’esordio il pensiero è andato inevitabilmente a Stefano Loverro, capitano e direttore generale biancorosso, artefice numero uno insieme all’amico Nunzio Molon della rinascita del club nell’estate del 2014.
Vi proponiamo qui sotto le dieci domande e le relative risposte di Stefano: una confessione «a cuore aperto» che, siamo certi, vi saprà emozionare.

1. Qual è stata la tua prima partita ufficiale con la maglia del Monselice? E quale l’ultima?
Il mio esordio risale al Gennaio 1998, un Abano-Monselice di Eccellenza disputato sul neutro di Torreglia e vinto da noi con un secco 0-3. Franco Pulin mi fece entrare all’85’, avevo compiuto 17 anni da due mesi ed ero il capitano della juniores. Già nella stagione precedente, con mister Pino Lazzaro, mi ero allenato qualche volta con la prima squadra ma con Pulin la cosa divenne sempre più frequente, al punto che alla domenica mi convocava ogni volta che mancava qualcuno per infortuni o squalifiche. L’ultima presenza risale invece ad aprile 2019, lo spezzone di gara nel derby con La Rocca vinto per 2-1 nei minuti finali.
2. Scegli la vittoria più bella e la delusione più cocente della tua carriera biancorossa.
Questa è la mia tredicesima stagione a Monselice, con cinque campionati vinti e due finali-playoff perse. Non è facile scegliere la gioia più grande, e premetto che non cito l’impresa di Sacile solo perché ero ancora un ragazzino. Così, su due piedi, direi il 3-3 di Conselve nell’anno della Terza Categoria. Una partita dai mille colpi di scena, che segnò l’inizio di una grande cavalcata proprio nell’anno della nostra rinascita. Il gol di Petracin al 96’ fece esplodere lo stadio, garantendoci la promozione in Seconda davanti ad una cornice di quasi mille spettatori. Numeri pazzeschi per una Terza Categoria, una scarica di adrenalina incredibile. La delusione più cocente? Sicuramente lo spareggio per salire in Promozione perso, nel 2018, con il Chiampo. Giocavamo in casa, al Comunale c’erano mille persone: ero convinto che, alla fine, il vecchio cuore biancorosso l’avrebbe spuntata. Purtroppo i quattro tempi supplementari nei precedenti spareggi con Maserà e Scardovari ci avevano tolto la brillantezza necessaria per superare quell’ultimo ostacolo. Sportivamente e moralmente, fu una batosta terribile.
3. Qual è stato l’attaccante più forte che hai dovuto marcare?
Fare un solo nome è impossibile, ce ne sono stati tanti. Di sicuro posso citare due punte con cui ho avuto la fortuna e l’onore di giocare: Fabrizio Bortoli e Milo Marcato.
4. Qual è stata la cornice di pubblico più straordinaria ed emozionante?
Il derby con La Rocca vinto per 4-0 il primo anno di Prima Categoria, una vittoria che ci laureò campioni d’inverno. Era dicembre e c’era un freddo allucinante: ricordo la fitta nebbiolina che nascondeva il Monte Ricco, un’atmosfera che rendeva quella domenica ancora più «british». Era la prima volta che rivedevo il Comunale gremito come ai tempi d’oro, con quasi 700 persone sugli spalti. Fu una vittoria straordinaria, che diede una carica incredibile a tutto l’ambiente.
5. Qual è l’allenatore che ti è più rimasto nel cuore?
Escludendo per ovvie ragioni Luca Simonato, che è ancora in sella e con cui siamo amici da una vita, direi Gianni Cappellacci, insieme al suo vice Iebba. È stato lui a scommettere ad occhi chiusi su di me quando il Monselice era solo un progetto dentro la mia testa. Non esisteva nulla: né giocatori, né dirigenza, né materiale per allenarci, né la certezza che i tifosi tornassero allo stadio. Per dirla tutta, non era neppure così scontata l’effettiva possibilità di giocare al Comunale. Ogni cosa era in divenire e bisognava fare tutto a costo zero! Personalmente avevo ben chiaro in testa ogni singolo dettaglio, ma all’epoca il Monselice era solo un pezzo di carta di avvenuto pagamento al campionato di Terza Categoria. Gianni ha rischiato di suo fidandosi di me e si è poi rivelato l’allenatore giusto per il nostro ambiente, con il suo spirito caldo e combattente. Se adesso siamo ancora qui, è anche merito suo. Ritengo poi doverosa una menzione speciale per Sandro Zilio, che sin dalla nostra rinascita è sempre stato un tassello di fondamentale importanza per lo spogliatoio. Oltre che per la mia stessa carriera di giocatore, avendo avuto l’opportunità e l’onore di crescere al suo fianco.
6. Qual è stata la partita più pazza ed esaltante vissuta con i colori biancorossi?
Sicuramente lo spareggio-playoff di due anni fa a Scardovari. Proprio pochi giorni fa, per ingannare la quarantena, ho riguardato il match per intero. Venivamo da un’altra impresa con il Maserà, ai tempi supplementari e con un uomo in meno. A Scardovari è stata la classica partita da DNA monselicense. Avevamo l’obbligo di vincere e a fine primo tempo eravamo sotto 2-0. Ribaltare tutto e vincere 3-2, in quel modo e ai tempi supplementari, è stato qualcosa di straordinario. Ho due immagini che non cancellerò mai dalla mente: la delusione e lo sconforto dei nostri tifosi in tribuna a fine primo tempo e le scene di pazzia degli stessi a fine gara. Nei video di Giuseppe e Lorena ho potuto vedere gioia ed euforia in tutti i presenti e in tifosi di tutte le età: avevamo reso felice un’intera città, che in quella trasferta ci aveva seguito in massa. Piccolo aneddoto: quella domenica arrivammo allo stadio in pullman con largo anticipo, cosi decidemmo di fare una camminata. A duecento metri dal campo c’è la chiesa e io entrai. Anche Federico Tognin ebbe la mia stessa idea e così, senza esserci messi d’accordo prima, ci ritrovammo fianco a fianco a pregare. Non ci siamo mai detti a chi fossero indirizzate quelle preghiere, ma vedendo il risultato finale un’idea me la sono fatta…
7. Stagione 2019/2020: il momento più bello e il tuo pensiero su come andrà a finire.
Scelgo il passaggio del turno in coppa contro il Rovigo, al «Gabrielli», ai calci di rigore. Una serata magica, emozionante, davanti ad una cornice di pubblico da brividi. Come andrà a finire? Dentro di me c’è la speranza che tutto si sistemi e che si possa riprendere, eventualmente anche a giugno, in modo da poter sfogare in campo questo periodo di esilio forzato. È una situazione surreale: sembra di vivere un film, dai risvolti terribilmente drammatici, invece è tutto vero. Calcisticamente parlando, mi mancano da impazzire i compagni, gli allenamenti, la routine dello spogliatoio, la pizza da Stuzzico con la squadra al venerdì e la tensione della domenica: l’unico giorno della settimana in cui sono contento di svegliarmi presto, perché dentro di me la partita inizia alle 8. Spero vivamente si possa tornare, quanto prima, alla vita di tutti i giorni.
8. Il tuo rimpianto più grande targato Monselice?
Le due finali playoff perse con Solesinese e Chiampo.
9. Cosa farai quando smetterai di giocare?
Resterò nel mondo del calcio e porterò avanti il ruolo che ho già appreso in questi 6 anni. Ora, per ovvi motivi, in molte situazioni mi comporto ancora da giocatore, com’è giusto che sia. Quando sarò unicamente direttore generale, la mia figura sarà sempre a contatto con la squadra e con lo spogliatoio: solo così si possono fare delle valutazioni corrette e obiettive sui giocatori e sull’andamento della squadra, mettendo sulla bilancia i tre allenamenti settimanali oltre alla partita della domenica. Di certo è difficile, perché comporta un notevole dispendio di tempo, ma è l’unica via per tracciare un giudizio reale e non semplicistico. Le dinamiche di ogni singolo giocatore, soprattutto nei dilettanti, sono molteplici.
10. Riassumi in poche righe cosa significa giocare a Monselice e indossare questa maglia davanti a questi tifosi.
Giocare qui comporta oneri e onori. Il tifoso biancorosso può accettare la sconfitta, ma non quando questa arriva senza aver lottato e sputato sangue in campo. Ai miei compagni dico sempre che siamo fortunati, perché siamo dei semplici dilettanti inseriti in un ambiente che ci fa sentire professionisti. Mentre noi andiamo a giocare c’è gente che spende soldi di biglietto e di benzina, che organizza le trasferte o che si prende mezza giornata di ferie, com’è capitato ai quarti di Coppa contro il Carmenta. E fa tutto questo per noi. Il minimo che si deve fare è terminare la partita senza rimpianti, con la consapevolezza di aver dato tutto fino all’ultima goccia di energia. Se questo accade, nel 90% dei casi arriva pure il risultato.