«CICCIO» VEDOVATO E IL MONSELICE: UNA STORIA D'AMORE CHE DURA DA 18 ANNI E CHE ORA VALE ANCHE LA FASCIA DI CAPITANO

Una storia d’amore che dura da quasi vent’anni. Ne sono passati diciotto dal lontano 2004, quando Giovanni Vedovato firmò il suo primo trasferimento al Monselice accasandosi in biancorosso nella finestra invernale di mercato.
Era un diciannovenne di belle speranze, che dalla Promozione con la maglia del Due Carrare accettò di scendere in Seconda Categoria per irrobustire la rosa del compianto Gianni Fagan: fu una cavalcata trionfale, che vide il Monselice vincere il campionato in carrozza senza mai perdere una gara.
Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti: «Ciccio» ha continuato a difendere i colori biancorossi per molte stagioni e oggi, complice l’addio al calcio di Matteo Deinite, è il capitano della squadra che sogna di lottare fino in fondo per il salto in Eccellenza.
«Conosco Monselice dal 2004 e ho condiviso momenti straordinari con tifosi, società e compagni di squadra le sue accorate paroleTutte queste persone mi sono state vicine come una famiglia nel periodo più brutto della mia vita. Devo tanto a questa piazza e la porterò sempre nel cuore. A Monselice si respira calcio in ogni angolo: calcio vero, quello fatto di passione, serietà e orgoglio. A partire dalla società fino all’ultimo dei tifosi».
Cosa significa, per te, scendere in campo da capitano?
«Dopo l’infortunio di Matteo, a cui mando un abbraccio fortissimo, ho avuto l’onore, la responsabilità e l’emozione di indossare la fascia. Per me è qualcosa di indescrivibile: ne sono assolutamente orgoglioso ogni volta che la metto al braccio. Pagherei tutto l’oro del mondo per poterla indossare sempre, anche tra dieci anni. È una responsabilità nei confronti dei compagni, della società e dei tifosi: è davvero qualcosa di grande, perché ad essere grandi sono il Monselice e tutte le persone che ogni giorno lavorano per il suo bene. L’obiettivo “dichiarabile” è quello di riuscire a trasmettere ai giovani e ai nuovi arrivati quanto sia emozionante e appagante giocare per questa piazza e con questa maglia. Monselice è la serie A dei dilettanti, è impossibile descriverne a parole la fierezza. L’altro obiettivo, invece, lo tengo per me!».
Cosa ti aspetti dal girone di ritorno?
«È un altro campionato strano, figlio della complicata situazione che stiamo vivendo ormai da due anni. Abbiamo chiuso l’andata al secondo posto, ad un solo punto dalla Piovese: ce la giocheremo fino all’ultimo respiro e lotteremo con tutte le nostre forze. Siamo un grande gruppo, con degli ottimi “fuori quota” e con dei “vecchi” di un’altra categoria».
Il tuo legame viscerale con Monselice rispecchia in pieno quello che aveva con la piazza il tuo amato papà Francesco.
«Ogni volta che entro al Comunale guardo dove si metteva lui e lo sento lì, vivo e presente. Il Monselice era una delle cose che più lo appassionava e lo rendeva fiero».
Quali sono i tre aneddoti che, in tanti anni di militanza biancorossa, porti maggiormente nel cuore?
«Il primo riguarda la prima vera volta che ho indossato la fascia di capitano. Era la domenica successiva al funerale di mio papà e Stefano Loverro mi chiese se me la sentivo di giocare: io risposi di sì, perché sapevo che in qualche modo sugli spalti ci sarebbe stato anche lui. In spogliatoio Stefano e Luca Bagno mi hanno chiamato in disparte e mi hanno attaccato la fascia al braccio, dicendomi delle parole che ricorderò per sempre: “Oggi questa è tua. Stai tranquillo, noi siamo con te”. Vincemmo 1-0 con un gol al 90’».
Gli altri due aneddoti sono altrettanto ricchi di emozioni.
«Il primo derby con La Rocca, a fine 2005. Il Comunale sembrava San Siro: era inverno, ma la nebbia era quella dei fumogeni. Si era parlato del derby tutta la settimana: in campo, al bar, per le strade. Poi arrivò il giorno della gara: lì per la prima volta mi sono sentito un calciatore vero, come se si realizzasse il sogno che hai sin da bambino. Eppure eravamo in Prima Categoria. L’ultimo aneddoto è legato allo spareggio-promozione del 2017 contro la Solesinese: a Solesino c’erano 1500 persone, purtroppo sappiamo tutti com’è finita. Ma è stata, in assoluto, la partita più ricca di emozioni che io abbia mai giocato in diciannove anni di prima squadra».
Se dovessi spiegare in poche parole cosa significa essere un giocatore del Monselice, cosa diresti?
«È una grande responsabilità. Un grande pregio e un onore. Non esistono realtà così, a questi livelli. I tifosi, perché è a loro che appartiene il calcio, ti fanno sentire importante: la loro felicità della domenica dipende esclusivamente da noi e dal nostro risultato. Il cuore di questa società è costituito da ex giocatori che amano Monselice e che conoscono bene gli ingredienti necessari per permettere ad un “pallonaro” di sentirsi un calciatore vero».